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Ogni guerra è sempre ed inevitabilmente un gravissimo evento che colpisce, in 
particolar modo, le fasce più deboli della popolazione. Essa stravolge 
orribilmente gli eventi naturali sino al paradosso di far seppellire i figli 
dai padri e non viceversa come, seguendo natura, dovrebbe essere.
Le popolazioni civili hanno sempre patito il peso degli eventi bellici sin 
	dalla notte dei tempi ed anche a Val della Torre esse furono gravate dalla 
	somministrazione alle forze armate di quadrupedi, carri, derrate, fieno, paglia 
	ed anche uomini (1).  Gli stessi uomini che spesso non 
	tornarono più alle loro case lasciando genitori, mogli e figli in lacrime e 
	miseria.
 
E’ quindi impensabile una guerra senza un enorme tributo da parte della gente 
	comune; quest’affermazione basta di per sé a far aborrire ogni guerra perché 
	non esiste alcuna causa che giustifichi l’uccisione di un uomo.
 
Chi ha avuto dei congiunti morti nella guerra voluta dal Fascismo non ha certo 
	condiviso le decisioni di Mussolini, essi hanno toccato con mano l’atrocità di 
	quell’evento. Chi ha potuto ascoltare i racconti dei reduci ancor oggi 
	rabbrividisce. Ma chi non è stato sfiorato direttamente da questa tragedia può 
	umanamente far finta di nulla?
 
Le condizioni imposte da una dittatura facevano e fanno pesare sulla 
	popolazione, oltre agli aspetti economici, anche la perdita della libertà. 
	Fatto questo che si riscontra nella normale vita quotidiana anche di un paese 
	come Val della Torre.
 
Ezio Capello , nel suo libro “Portìa 1870 – 1993”, racconta 
	dei disagi sopportati per la celebrazione di un normale matrimonio nel 1944. La 
	perdita della libertà non è apparentemente così atroce come la morte ma, se ci 
	soffermiamo un istante, possiamo vedere come la morte violenta sia figlia 
	dell’alienazione della libertà.
	 
	Nei regimi totalitari, di qualsiasi colore essi siano stati, molte persone 
	innocenti ed inermi vennero giustiziate, dopo processi farsa, solo perché si 
	permisero di dissentire democraticamente dalla legge dittatoriale.
 
La libertà deve consentire all’uomo di esprimere i propri pensieri, nel 
	rispetto degli altri e senza timori. Ricordiamo però che, come il compiano 
	cantautore Giorgio Gaber ebbe a cantare: “la libertà non è 
		star sopra un albero, non è neanche avere un’opinione, la libertà non è uno 
		spazio libero, libertà è partecipazione”. Quando l’uomo viene privato 
	della propria libertà, incarcerato, vilipeso e ucciso da un regime totalitario 
	come può reagire alla sopraffazione del più forte?
 
Nel marzo 1943 iniziarono gli 
		scioperi contro il fascismo e contro la volontà del regime di continuare 
	la guerra ma la protesta democratica non bastò. Che cosa si sarebbe dovuto 
	fare? Chiudere gli occhi su atrocità come le deportazioni naziste, le leggi 
	razziali, le limitazioni della libertà ed altro ancora?
 
No, la consapevolezza che ad ognuno toccava la propria parte di responsabilità 
	nel debellare il nazismo e la connivente dittatura fascista prese il 
	sopravvento. Prima le Forze Armate nelle giornate che seguirono l’armistizio (8 
	settembre) poi i Partigiani e la popolazione civile, reagirono.
	 
	Certo, anche la popolazione civile; poiché è impensabile che le brigate 
	partigiane potessero sopravvivere senza il grande appoggio della gente comune 
	che ha collaborato in tantissimi modi.
	 
	So di ragazze che cucivano maglioni per i giovani che erano su in montagna, di 
	contadini che nascondevano e sfamavano Partigiani, di vedove a causa dei 
	recenti eventi bellici che vestivano Partigiani con gli abiti dei loro cari 
	defunti, e di attestazioni di gratitudine verso quei giovani che difendevano la 
	libertà che oggi è di tutti noi.
 
(1) Prato P. – “Alcune notizie storiche riguardanti Val della 
		Torre” – Capo XIX = Del Comune
		 
	
 
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